L’Italia è tra i 5 paesi in Europa, insieme a Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna, con il più alto numero di femminicidi. Secondo i dati di Unodc-United Nations Office on drugs and crime, nel 2021 in Germania ci sono stati 337 casi, in Francia 228, in Gran Bretagna 207, in Italia 119, in Spagna 97.
Seguono la Polonia con 79 femminicidi, la Romania con 76, l’Austria con 40, i Paesi Bassi con 37, la Lettonia con 36 e la Grecia con 33. Si tratta di dati non sempre attendibili, perché il sistema di rilevazione dei femminicidi nei singoli paesi varia in base alla percezione di ciò che è riconosciuto come femminicidio, cioè come assassinio di una donna in quanto donna. Ancora più spinoso il riconoscimento di transcidi, poiché soggettività non necessariamente inquadrabili nel genere femminile, o il riconoscimento delle uccisioni di sex workers, spesso classificato come morte sul lavoro anziché come femminicidio. I dati del resto vengono forniti da polizia e stampa, che li gestiscono secondo direttive impartite dai propri governi in base a criteri più o meno sessisti e omofobi.
In Italia da qualche tempo è attivo l’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Trans-cidi (FLT) della rete NonUnaDiMeno, che raccoglie i dati con un approccio transfemminista, andando oltre le narrazioni ufficiali. Ad oggi, per il 2023 in Italia l’Osservatorio 68 femminicidi (di cui 2 sex workers),1 transcidio, 5 suicidi e 6 morti in fase di accertamento indotti o sospetti indotti da violenza e odio etero – cis – patriarcale. Sono almeno 11 i tentati femminicidi, e almeno 5 le persone coinvolte e uccise perché presenti al momento del femminicidio. La vittima più giovane aveva 13 anni, la più anziana 95. Almeno 5 figli minori hanno assistito a femminicidio e 30 sono rimasti orfani. In 28 casi l’assassino era il marito, il partner, il convivente. In 12 casi, a compiere il gesto è stato l’ex partner da cui la persona uccisa si era separata o aveva espresso l’intenzione di separarsi. Negli altri casi la relazione con la vittima era: figlio, padre, cognato, genero, suocero, collega, conoscente, cliente e, in un caso, la madre.
È il marito, l’ex marito, il compagno, l’ex compagno, molto spesso anche padre, ad uccidere, perché non accetta la fine della relazione e la perdita di “qualcosa” che ritiene di sua proprietà. La libertà di uscire da una relazione viene difficilmente accettata proprio all’interno di quella famiglia tradizionale indicata dalla Chiesa (dalle religioni tutte) come unico orizzonte di relazioni interpersonali. Mentre scrivo il caso più recente è quello di Marisa Leo, ma quando il giornale uscirà probabilmente sarà “superato”.
Alla violenza patriarcale e di genere si somma a volte anche la razzializzazione delle persone uccise, e degli assassini. Una narrazione che vorrebbe concorrere ad inquadrare il femminicidio o la violenza come fenomeno legato a presunte sottoculture, mentre la cronaca ci racconta che la cultura patriarcale e maschilista esiste a tutte le latitudini e in ogni classe sociale.
I casi di stupro di gruppo recenti ci portano in ambiti sociali diversissimi dove la sopraffazione e il disprezzo della donna si riproducono identici dalla Milano bene della discoteca Apophis, al Foro Italico di Palermo, a Caivano. La Russa padre, responsabile di dare l’esempio etico di come si comporta un “vero uomo”, subito avalla la versione del figlio: la ragazza era consenziente, aveva bevuto, non ricorda, non è attendibile. A Caivano si parla invece di degrado ambientale, di povertà educativa. E la risposta è subito quella securitaria del “decreto Caivano”, con l’inasprimento delle pene, la criminalizzazione delle problematiche sociali e la grottesca scelta di ristrutturare il centro sportivo dove due bambine sono state stuprate e darlo in gestione ai carabinieri. A Palermo si tenta di colpevolizzare ancora la ragazza stuprata da 7 uomini perché poco accorta. E, chissà, forse perché è ancora viva e ha preso parola sulla sua storia.
Il modo in cui viene narrata la violenza è parte importante del problema, come parte importante del problema sono i tribunali dove si assiste alla vittimizzazione secondaria.
Troppo spesso è la donna a finire sul banco degli imputati. Accade, ad esempio, che della vittima siano valutate le scelte relazionali, il modo di divertirsi, l’abbigliamento, elementi che ai fini della ricostruzione dei fatti sono irrilevanti, con il risultato di addossare a lei una parte di colpa (victim blaming): il famoso “se l’è cercata”.
Il termine himpathy, invece, indica un atteggiamento particolarmente indulgente, una “empatia sproporzionata” di cui godono alcuni uomini nei casi di violenza di genere: la ricerca di un movente che giustifichi l’atto ad ogni costo, che faccia apparire la violenza quasi come conseguenza delle scelte della vittima; parlare di una separazione come di un evento traumatico voluto dalla donna, e non come un caso ordinario della vita, gestibile con rispetto reciproco; e, ancora, utilizzare espressioni che fanno pensare a una fatalità, “il raptus di gelosia”, un impeto di follia passionale, associando il movente a una patologia, qualcosa che ha portato l’aggressore ad essere fuori di se’. Lo stereotipo dell’uomo come essere razionale rispetto alla donna che è guidata dall’emotività in questi casi è curiosamente polverizzato dalla narrazione empatica verso il violento. La cruda realtà della violenza viene narrata in modo distorto, trasfigurata, romanticizzata.
Le donne, dunque, mentono, provocano o denunciano per calcolo; gli uomini, al contrario, agiscono mossi da un “istinto rapace” che, per natura, non possono imbrigliare, oppure da qualcos’altro che fa perdere loro il controllo. I famosi lupi evocati pubblicamente dal compagno della Meloni, e non solo. Questi sono solo alcuni dei “miti dello stupro” più diffusi, che ritroviamo spesso nei titoli dei giornali, e che in genere finiscono per deresponsabilizzare l’uomo e colpevolizzare la donna.
Nei tribunali si ritrovano di frequente questi stessi pregiudizi sessisti, talvolta anche in giudici e pm donne, come nel caso della sentenza emblematica della Corte di Appello di Ancona del 2017, che assolse tre aguzzini per la scarsa avvenenza della ragazza: stupro improbabile dunque, perché non ne valeva la pena. La ragazza che aveva denunciato non venne creduta per questa allucinante motivazione.
Nel 2019 il sistema legislativo ha introdotto il cosiddetto Codice Rosso, con disposizioni a tutela di coloro che si sono resi responsabili di atti di violenza. Sono stati previsti percorsi di recupero per maschi abusanti presso strutture dette CUAV (Centri per Uomini Autori di Violenza), spazi di discussione per il superamento dello stereotipo machista. Il percorso individuale viene sottoposto ad una commissione valutativa del grado di progresso del soggetto, a cui potranno essere concessi sconti di pena, ed esserne accelerata la riabilitazione. Tutele per l’abusante, dunque, mentre le donne continuano spesso a non essere credute, mentre i Centri Antiviolenza aspettano finanziamenti che consentano loro di garantire una pur minima continuità operativa, mentre il Reddito di libertà (L.17/7/2020) arriva ad un numero esiguo di soggetti, mentre la violenza contro le donne continua.
Non si parla di educazione al consenso, al rispetto della volontà dell’altr. Non si parla abbastanza di autonomia economica, perché i salari delle donne sono molto spesso inferiori a quelli degli uomini, sono salari precari, spesso considerati accessori nell’economia familiare. Non si parla in termini positivi di autodeterminazione, di libertà di scelta sul proprio corpo, sulla propria affettività. Non si parla di affrontare la fine di una relazione senza drammi, con rispetto reciproco, con responsabilità. La soluzione del problema riguarda tutt,non solo le donne, e non può arrivare dal sistema patriarcale che ne è la causa, ma da un lavoro dal basso trasversale, che cambi alla radice questa società e le marce relazioni di potere su cui si regge .E’ da qui che si deve partire per costruire una società fondata sul rispetto, sulla solidarietà, senza gerarchie e sfruttamento.
Le femministe di Palermo sono scese in piazza in questi giorni al grido “Ti rissi no!” (Ti ho detto no!) e in molte città si è fatto lo stesso. Raccogliamo queste voci. Proseguiamo la lotta.
Nadia